Questo scritto è più lungo di quanto avevo immaginato prima di terminarlo. Ed è lungo perché inevitabilmente unisce delle riflessioni generali alla storia personale che mi ha portato a metterle in fila. Nonostante la lunghezza ho scelto di non tagliarlo perché ho voglia di raccontare questi pensieri.

In questi giorni sentiamo parlare più volte al giorno della “guerra al Corona virus”. Anche diversi programmi televisivi di approfondimento dei giorni scorsi usavano queste parole nel loro titolo. È una metafora che si comprende molto bene, che racconta la drammaticità del momento, le difficoltà, il dolore, il senso di pericolo diffuso. Le istituzioni e gli ospedali sono in guerra: sono in una situazione straordinaria, cercano di far fronte a un’emergenza, si combatte. Questa espressione ci è stata proposta dal mondo politico e presto è entrata a far parte dei nostri discorsi quotidiani e del nostro sentire quotidiano.

Ma, appunto, questa è una metafora, cioè un modo per comprendere certi aspetti di un concetto -la pandemia in atto- nei termini di un altro concetto -in questo caso la guerra- (Lakoff e Johnson, Metafora e vita quotidiana, 1980).

Non riesco però a non pensare che le parole abbiano delle implicazioni: quando le scegliamo e le usiamo facciamo una scelta di campo. E attorno alle parole che usiamo ruotano altri significati di cui a volte non siamo consapevoli fino in fondo. Ma, consapevoli o no, li chiamiamo in causa, li usiamo per comprendere il mondo e questi significati quindi ruotano anche attorno a noi e attorno ai nostri discorsi. Rientrano in quello che sentiamo e che facciamo anche senza che ce ne accorgiamo coscientemente.

Provo a fare qualche esempio senza la pretesa di essere esaustivo: un linguista saprebbe essere più completo e preciso, le mie saranno considerazioni aperte, pensieri e sensazioni che ho raccolto in questi giorni.

Parto dalla parola. Il dizionario online del Corriere della Sera tra i sinonimi di “guerra” riporta: lotta, ostilità, conflitto, disputa, lite, discordia, inimicizia, avversione. Sono solo alcuni dei sinonimi che ho preso sia dal significato letterale sia da quello figurato della parola. Penso poi ad altri impliciti che la parola “guerra” porta con sé e che hanno a che fare sia con il senso di pericolo e l’idea di una minaccia che incombe sia con la presenza di un nemico da combattere e da vincere. O in alternativa soccombere.

È proprio su quest’ultimo implicito, il nemico, che mi sto interrogando. Questo concetto ce lo troviamo tra le mani anche senza averlo esplicitamente scelto poiché è la metafora che, come un centro gravitazionale, lo tiene legato alla sua orbita. E noi ci facciamo i conti in misura più o meno consapevole perché se siamo in guerra un nemico ci deve essere (altrimenti che guerra è?) e va combattuto, possibilmente vinto. Di solito poi nelle guerre il nemico è ben visibile e concreto: un’altra nazione, un popolo, un gruppo, una o più persone insomma. Inoltre il nemico è intenzionato a fare del male. Ed è da questi ultimi elementi che credo inizino i guai.

Uscendo dalla metafora infatti il nemico diventa il virus SARS-Cov-2 che però non è visibile, non è individuabile e non ha nessuna “intenzione” a ben vedere, è solo un virus. La sua e la nostra biologia però fanno si che il virus viaggi per mezzo delle persone, spesso anche in modo invisibile e questo rende ciascuno di noi potenzialmente contagioso per ciascun altro e chiunque altro potenzialmente contagioso per noi. Da un punto di vista psicologico e relazionale questo può già essere un problema.

E a questo problema se ne aggiunge almeno un altro: le norme di distanziamento sociale, così utili per limitarne la diffusione, hanno a loro volta delle implicazioni.

Modificano infatti il nostro modo abituale di vivere la prossemica, la vicinanza fisica con gli altri, il contatto. Normalmente, fino a poco tempo fa, se una persona era mia amica, se avevo confidenza, se eravamo legati da un rapporto di fiducia reciproca ci avvicinavamo, ci toccavamo, ci sorridevamo a viso scoperto, mentre da una persona giudicata pericolosa tenevo una distanza, non rivolgevo nemmeno un’espressione facciale specifica (pensiamo anche qui alle metafore nelle espressioni quotidiane: “meglio stare alla larga da quel tipo…”). Semplificando molto potremmo pensare ad uno stretto collegamento tra questi concetti: vicino-buono, lontano-cattivo. Quello a cui faccio riferimento non è un collegamento semplicemente concettuale o da dizionario ma qualcosa di vissuto sulla nostra pelle, che accompagna le nostre azioni e le nostre relazioni. Allora anche qui, per quella stessa proprietà “gravitazionale” dei concetti con cui diamo senso al mondo (George Kelly parlerebbe di costruzioni costellatorie), potremmo immaginare che la distanza imposta dalle norme igieniche porti con sé un sapore, una sfumatura, di diffidenza e di pericolosità.
Provo a sintetizzare: sono in guerra con un nemico invisibile ma che potrebbe vestire i panni di qualunque persona incontro per strada, dalla quale devo tenere le distanze e la cui espressione facciale (che in pochi istanti ci comunica migliaia di sfumature sulla relazione con l’altro) in molti casi mi è nascosta. La strada che a questo punto si apre immagino che abbia a che fare con la diffidenza reciproca, se non con la paura in certi casi.

Per evitare ogni fraintendimento ripeto le mie intenzioni: non voglio in nessun modo mettere in dubbio le misure di contenimento e prevenzione che siamo tenuti a mantenere, voglio solo riflettere sulle implicazioni psicologiche e relazionali che queste possono avere insieme alle parole che scegliamo per raccontarci il momento che stiamo vivendo.

Queste riflessioni accompagnano anche la mia esperienza di questi giorni. Ovviamente l’unico luogo sociale che frequento è il supermercato. Ingressi contingentati, code per entrare, distanze, guanti, mascherine. Spesso tensione, fretta, attenzione a non passare troppo vicino alla persona che si incrocia in corsia. Qualcuno cambia corsia, a volte. E questo l’ho notato anche negli sguardi: sguardi sfuggenti che vanno altrove, che vanno oltre. Anche gli occhi rispettano il distanziamento sociale pur non essendo veicolo di nessun contagio. E si potrebbe citare anche la ricerca di altri nemici concreti verso i quali essere diffidenti o arrabbiati: chi fa passeggiare il cane, il ciclista, il runner, l’untore sotto qualche forma, ecc.

Anche qui non sto avallando il mancato rispetto delle norme a cui tutti siamo sottoposti ma faccio riferimento all’aria che si respira nei confronti degli Altri.

Per questo al supermercato e per strada ho scelto di tenere un atteggiamento diverso, di cercare gli sguardi della gente. Io amo molto il contatto con le persone e in mancanza del contatto fisico questo è quello che mi posso permettere. E, oltre allo sguardo, il sorriso è l’abbraccio che ci possiamo dare. Io da solo non faccio la differenza ma posso fare la mia parte invitando chi incontro a giocare un gioco diverso, a guardare agli altri -sconosciuti- con occhi differenti, a cercare il contatto dentro alla distanza. Ed è qualcosa che tutti possiamo fare. In ogni istante abbiamo la libertà di scegliere se rimproverare e attaccare chi pensiamo stia cercando di saltare la fila alla cassa, chi è in giro per motivi che non conosciamo, chi si innervosisce perché chissà quale situazione sta vivendo nella propria vita e perde le staffe oppure farci delle domande ed uscire dalla pretesa di conoscere le intenzioni e le vite degli altri senza che ce le abbiano raccontate. Tra le tante libertà limitate questa è invece una scelta che ancora ci rimane e nessun virus ce la potrà togliere.
Credo che la metafora di cui abbiamo bisogno in questo momento non abbia a che fare con la guerra, che se è guerra di tutti contro tutti ci divide, ci isola e ci lascia soli facendo prevalere aspetti “combattivi” ad aspetti “cooperativi” (ancora Lakoff e Johnson). Ciò che ci serve come mai prima d’ora ha a che fare con il senso di comunità e di vicinanza reciproca pur nei limiti concessi. Ci servono pensieri, concetti e visioni che permettano di sentire la vicinanza della comunità di cui facciamo parte anche se dovremo per qualche tempo ancora rispettare delle distanze, che però potrebbero essere distanze solo relativamente ai centimetri che ci separano. Ci servono metafore che aiutino a sentire come ciascuno di noi sia sulla stessa barca pur nei modi personali che contraddistinguono ogni individuo, nel rispetto dei limiti e delle possibilità di ognuno. Ci servono pensieri che ci diano la possibilità di leggere i comportamenti degli altri con la lente della fiducia anche quando crediamo che qualcuno stia facendo un errore e potrebbe quindi essere aiutato a fare di meglio. Quando tutto inizierà a finire, quando potremmo iniziare a ripensare alle nostre vite ed al futuro, sarà il senso di comunità e di coesione a renderci forti. E funzionerà solo se la comunità a cui sapremo pensare sarà una comunità in grado di accogliere tutti.
(So che non si fa, ma poiché questo articolo non ha finalità commerciali mi sono permesso di prendere le immagini che ho usato da internet, senza nessuna attenzione ad eventuali questioni di copyright. Se fosse necessario però sono pronto a rimediare.)
Dott. Carlo Grassi

Dott. Carlo Grassi

Psicologo Psicoterapeuta

Mi chiamo Carlo Grassi, sono psicologo e psicoterapeuta, iscritto all’Albo degli Psicologi della Regione Emilia Romagna. Mi occupo prevalentemente di psicoterapia e sostegno psicologico individuale o di coppia per adulti e adolescenti.